Reddito di libertà: una via di fuga dalla violenza, ma è abbastanza?

Nel panorama delle misure di sostegno sociale, il reddito di libertà si configura come uno strumento cruciale a supporto delle donne vittime di violenza. Istituito con l’obiettivo di favorire l’indipendenza economica e percorsi di autonomia per chi sceglie di sottrarsi a un contesto di abusi, questo contributo economico rappresenta un primo, importante passo verso una nuova vita. Tuttavia, nonostante le nobili intenzioni, sorgono spontanee delle perplessità circa l’adeguatezza dell’importo erogato per garantire una reale e duratura “libertà”.
Che cos’è il reddito di libertà?
Il reddito di libertà è un contributo economico destinato alle donne, con o senza figli, che hanno subito violenza e sono seguite da centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali. La finalità è quella di sostenere le spese per l’autonomia abitativa, il percorso scolastico e formativo dei figli minori e, più in generale, per avviare un progetto di vita indipendente.
L’importo massimo del contributo è di 500 euro mensili, erogato in un’unica soluzione per un massimo di 12 mesi. Questa misura è compatibile con altri strumenti di sostegno al reddito, come l’Assegno di Inclusione.
Possono accedere al reddito di libertà le donne che si trovano nelle seguenti condizioni:
- Essere residenti nel territorio italiano.
- Essere cittadine italiane, comunitarie o extracomunitarie con regolare permesso di soggiorno.
- Trovarsi in una condizione di particolare bisogno e urgenza, attestata dal servizio sociale professionale di riferimento.
- Essere prese in carico da un centro antiviolenza riconosciuto.
La procedura per ottenere il reddito di libertà
La procedura per richiedere il reddito di libertà non è diretta, ma avviene per il tramite degli operatori comunali. Ecco i passaggi fondamentali:
- Presa in carico: La donna deve essere già seguita da un centro antiviolenza e dai servizi sociali del territorio, che sono i soggetti chiave per l’attivazione della procedura.
- Attestazioni necessarie: Per avviare la domanda sono necessarie due attestazioni:
- Una dichiarazione del legale rappresentante del centro antiviolenza che certifichi il percorso di emancipazione e autonomia intrapreso dalla donna.
- Un’attestazione del servizio sociale che confermi lo stato di bisogno legato alla situazione di violenza.
- Presentazione della domanda al comune: La donna, direttamente o tramite un rappresentante legale, presenta la domanda al proprio Comune di residenza o al Comune nel cui ambito territoriale opera il servizio sociale che l’ha presa in carico.
- Utilizzo del modulo ufficiale: La domanda deve essere compilata utilizzando il modulo “SR208”, reperibile sul sito dell’INPS.
- Inoltro all’INPS: Sarà poi il Comune a inoltrare telematicamente la domanda all’INPS, che si occuperà dell’istruttoria e della successiva erogazione del contributo, in base ai fondi disponibili a livello regionale e seguendo un criterio cronologico di presentazione delle domande.
Critica: un sostegno insufficiente per una reale libertà?
Se da un lato l’istituzione del reddito di libertà rappresenta un segnale positivo di attenzione verso una problematica sociale drammaticamente diffusa, dall’altro l’importo stanziato solleva non poche perplessità sulla sua reale efficacia. Un contributo massimo di 500 euro al mese, per quanto erogato in un’unica soluzione per un anno, rischia di essere insufficiente a garantire una vera autonomia, specialmente in un contesto di aumento generalizzato del costo della vita.
Le principali criticità possono essere così riassunte:
- Costo della vita: In molte città italiane, 500 euro mensili bastano a malapena a coprire le spese per un affitto, soprattutto per una donna con figli a carico. A ciò si devono aggiungere le utenze, la spesa alimentare, i trasporti e tutte le altre necessità quotidiane.
- Burocrazia e tempistiche: Le testimonianze raccolte evidenziano spesso ritardi burocratici e lungaggini nell’erogazione dei fondi. Questo lasso di tempo può essere critico per una donna che ha appena trovato il coraggio di lasciare una situazione di pericolo e si trova in uno stato di massima vulnerabilità economica.
- Fondi limitati: L’accoglimento delle domande è subordinato alla disponibilità dei fondi regionali. Ciò significa che non tutte le donne che ne avrebbero diritto riescono effettivamente a beneficiare del contributo, creando una disparità di trattamento inaccettabile.
- Una “libertà” a tempo determinato: La durata massima di 12 mesi, senza possibilità di rinnovo, pone un’incognita sul futuro. Un anno può non essere un periodo sufficiente per trovare una stabilità lavorativa e abitativa solida, rischiando di far ripiombare la donna in una situazione di precarietà economica al termine del sussidio.
In conclusione, il reddito di libertà è uno strumento che va nella giusta direzione, ma che necessita di un potenziamento significativo per poter essere veramente trasformativo. Un aumento dell’importo, una semplificazione delle procedure e uno stanziamento di fondi più cospicui e certi sono passi indispensabili affinché questo contributo non si limiti ad essere un “aiutino”, ma diventi un solido trampolino di lancio verso una vita libera dalla violenza e dall’indigenza. La libertà, per essere tale, deve poggiare su basi economiche solide e durature.